Eccellenze Reverendissime; Illustrissime autorità civili e militari; Carissimi presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, seminaristi, fedeli tutti, persone amate dal Signore! Ringrazio tutti per il cordoglio manifestatomi nel giorno in cui assieme a voi salutiamo ed affidiamo al Datore della vita il Vescovo emerito Antonio. Non siamo qui per piangere, ma per ringraziare Dio Uno e Trino, che ha voluto suscitare in mezzo a noi e per noi il Vescovo emerito Antonio. Solo agli occhi degli stolti pare che egli sia morto, ma attraverso la sofferenza e il transito da questo mondo, Dio lo ha voluto provare per trovarlo degno di sé. Lodiamo ed esaltiamo insieme il Signore Dio onnipotente, che regnerà per sempre sui giusti! Lodiamo ed esaltiamo il Verbo Umanato, che ha dato la sua vita per noi, per insegnarci che anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli e le sorelle! Lodiamo ed esaltiamo lo Spirito Santo, per la cui potenza il Verbo è disceso dal cielo non per fare la sua volontà, bensì la volontà di colui che lo ha mandato! Non siamo qui per piangere la figura del nostro Vescovo emerito e amico, ma per rileggerne l’esistenza alla luce delle sacre Scritture proclamate. Scriveva Cesario di Arles, per esortare a leggere sempre le Scritture in ogni attimo della vita: «Supplico voi, fratelli dilettissimi, di dedicarvi, a qualunque ora possiate, e insistere nello studio della divina lettura. E poiché questo è il cibo dell’anima per l’eternità, che egli ci ha voluto preparare in questa vita sia nel leggere sia nel compiere opere buone, affinché nessuno cerchi di trovare delle scuse per non aver quasi per nulla imparato a leggere: dal momento che anche coloro che non sanno di lettere, vanno alla ricerca per sé stessi di qualche letterato il quale sia in grado di leggere loro le cose scritte; il che ci risulta notoriamente che facciano di frequente anche dei commercianti senza istruzione; essi, infatti, chiamano presso di sé delle persone istruite e, grazie a coloro che leggono e scrivono, si conquistano ingenti guadagni. Se ciò essi fanno a motivo di un introito terreno, quanto più noi per la vita eterna?» (Cesario, S.Ch. SC 175, tomo I [Du Cerf, Paris 1971, Sermo VIII pp. 349-360]. Prim’ancora che gli eventuali meriti, doni, qualità, opere di bene del defunto, noi in questa liturgia leggiamo nei sacri testi il mistero di Dio che, attraverso le Scritture, ha portato di nuovo la vita dove c’era la morte, la speranza dov’era la disperazione, il nutrimento dove c’era la fame, la verità dove c’era l’illusione. Questa è, del resto, la vocazione di ogni persona consacrata a Dio e alla Chiesa e di ogni fedele cristiano. Ancora una volta, dunque, noi celebriamo non un funerale, nel senso corrente del termine, bensì celebriamo la vittoria della vita sulla morte, quella vittoria che l’esistenza terrena di quest’uomo e Vescovo ha incessantemente annunciato e fedelmente vissuto, particolarmente nella liturgia. Maestam dum prolem/ Tu Pastor amate/ relinquis/ Disce tui memores/ Nos fore perpetuo. [Tu, Pastore amato, mentre lasci tristi i tuoi figli, continua ad ammaestrarci coi tuoi insegnamenti perché ne siamo memori per sempre]. Con le stesse parole indirizzate dal popolo santo di Dio che è in Catanzaro-Squillace al suo Pastore, nella lingua latina, a lui tanto cara, nel giorno in cui, terminato l’esercizio ordinario del ministero egli consegnava il testimone al successore, vogliamo rileggere i testi proclamati, interpretando i sentimenti di tutti. Carissimi, invocate per me Dio, affinché sciolga il mio cuore e le mie labbra in questa breve meditazione in due punti, collegati ad altrettanti aspetti delle Letture proclamate: (1) Cosa significa: i fedeli nell’amore rimarranno presso di lui; (2) Perché anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli.

  1. I fedeli nell’amore rimarranno presso di lui. La meditazione sulla morte dei giusti, consegnata dall’agiografo in questo capitolo del libro della Sapienza, è tra i vertici più alti della letteratura di tutti i tempi. La semplice e arcaica teoria della retribuzione dei giusti qui diviene vera e propria rivelazione. Essa, seppur nell’enigma e come in uno specchio, apre noi credenti agli scenari definitivi sul tratto di strada che qualificano esistenza terrena: siamo tutti nelle mani di Dio da sempre e per sempre, per cui il momento della morte è solamente un episodio di persistenza nell’amore Le parole che mons. Cantisani mi (ci) sussurrava nell’ultima settimana erano: Nei giorni scorsi e ieri con più intensità pregava con queste parole: Il Signore Risorto viene! “Vieni Signore Gesù. Vieni presto!”. Ed aggiungeva: “Madre mia, fiducia mea!”. E Ieri in un momento di lucidità ha pregato con queste parole: “Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede. Vieni Signore Gesù!” Confidiamo noi tutti in Dio e crediamo davvero in questo? Solo chi persiste in questa fede, che è teoria ma é insieme confidenza in Dio, fiducia in Dio, abbandono in Dio, può capire che «i fedeli nell'amore rimarranno presso di lui,/ perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti» (Sap 3,9bc). Di qui la prevalenza della gioia sulle lacrime, della fiducia sul lamento, come cantava madre Teresa di Calcutta: «La vita è bellezza, ammirala…/ La vita è beatitudine, assaporala…/ La vita è preziosa, abbine cura./ La vita è una ricchezza, conservala./ La vita è amore, gòdine». Che vita intensa è stata la tua, Vescovo Antonio! Rispondendo, già in giovanissima età, alla chiamata del Signore, dopo gli studi presso il Pontificio Seminario Regionale di Salerno, fosti ordinato presbitero a ventidue anni e mezzo nella tua Lauria (PZ) il 16 giugno 1949. Canonico del Capitolo Cattedrale e Cancelliere della Curia Vescovile, dopo aver perfezionato i tuoi studi in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Lateranense, continuando ad insegnare nel Liceo, divenisti Parroco di Sapri, dove molti ancora ricordano l’importanza che desti agli organismi di partecipazione dei fedeli nell’azione pastorale, soprattutto mediante l’istituzione e l’accoglienza dei suggerimenti del Consiglio Pastorale Parrocchiale, visibile segno di comunione. Eletto a 45 anni Arcivescovo di Rossano, fosti ordinato il 27 dicembre 1971 e per un anno fosti Amministratore apostolico di Cassano all’Jonio (1° maggio 1978 - 16 giugno 1979) e, dal 1979, anche vescovo di Cariati. Il motto prescelto diceva già il tuo amore alla vita e il tuo gaudio: “Evangelizo vobis gaudium magnum”. Eletto Arcivescovo di Catanzaro e Vescovo di Squillace il 31 luglio 1980, iniziasti il tuo ministero in una città che hai amato profondamente, restandone legato per sempre fino a oggi. Nell’intervento di ringraziamento per il conferimento della cittadinanza onoraria di Catanzaro, di questa città affermasti: «Ricca di storia, di valori morali, di risorse culturali, di giovani che vogliono diventare protagonisti, Catanzaro ha il diritto e il dovere di guardare al futuro “con ottimismo fiducioso”», manifestando il desiderio di essere sepolto in Cattedrale. Anche il tuo legame con Squillace fu forte, soprattutto negli ultimi anni di questa tua vita terrena, mettendoti sulle orme di un suo illustre cittadino, Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore, facendo dono a tutti noi della traduzione integrale del Commento al Salterio, a riprova e sostegno della presenza di un’autentica, spontanea (ossia non provocata artificialmente), e soprattutto diffusa e continua, fama di santità del santo Senatore nelle nostre terre meridionali. Riflettendo col salmo 50 sulla misericordia di Dio e sul significato della morte di Cristo, come hai ricordato, Cassiodoro scrive: «Morte che ha tolto la rovina, fine che ha donato un bene che rimarrà senza fine! E difatti, quando il pungiglione della morte arrivò all’innocente, avvenne che giustamente perdette coloro che teneva assoggettati. […]. Non ci fu alcuno che con la sua fine abbia pagato il debito di un altro. Tra i figli degli uomini c’è uno solo, Cristo, il quale è l’Agnello immacolato, e in lui tutti sono crocifissi, tutti morti, tutti sepolti, e tutti anche risuscitati... Concedici, o piissimo Dio, tu che ti sei degnato di patire per noi nella carne che avevi assunta, di farci partecipi del tuo regno». Se vivere è camminare in Dio nella gioia, come non ricordare, vescovo Antonio, il tuo lungo e infaticabile apostolato episcopale? La visita di Giovanni Paolo II, primo Presidente della Fondazione Migrantes della CEI, i due anni bruniani, il Primo Sinodo Diocesano (1993-1995); la celebrazione solenne del Giubileo del 2000; il Primo Congresso Eucaristico Diocesano (2001); la creazione di nuove parrocchie, l’incremento della vita spirituale dei Santuari diocesani; la Pastorale della Famiglia; la Pastorale della Comunicazione espressa nel periodico Comunità Nuova, e nei vari periodici vicariali e parrocchiali che hai sostenuto fortemente.

3.Anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, l’evangelo secondo Giovanni ci registra il famoso discorso sul pane di vita, nel corso del quale Gesù stesso descrive in termini di invio-riconsegna la sua missione di pane vivo disceso dal cielo: egli è disceso, infatti, per fare pienamente la volontà del Padre suo, cioè per non perdere nulla di quanto il Padre gli ha dato, anzi risuscitarlo nell’ultimo giorno. Esprimendosi col linguaggio della visione, come il Figlio vede il Padre dall’eternità, chiunque su questa terra vede il Figlio e crede in lui, avrà la vita eterna e la resurrezione finale. Per facilitare la visione del Figlio incarnato, sono importanti le mediazioni, cioè le figure umane che illuminano gli aspetti più belli del Figlio eterno e che la Chiesa addita nel suo calendario liturgico. Si spiegano così gli sforzi di ogni annunciatore della Parola di Dio e di ogni pastore, e dello stesso Cantisani: sforzi in lui miranti a far conoscere, in particolare, la predicazione del beato Domenico Lentini e gli scritti ascetici di Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore. Il breve passo della prima lettera di Giovanni è, a sua volta, un’efficace spiegazione di cosa significhi invio-ritorno, vita terrena-vita eterna, non soggetta alla morte. È vita eterna, abbiamo ascoltato, soltanto quella vita che ama. Se chi non ama rimane nella morte, ecco per noi un grande insegnamento morale, ancora più valido in questa stagione supermoderna, in cui la delazione, il sospetto, la diceria, la seminagione del falso, delle fake news… sembrano talvolta farla da padrone sull’amore, sul rispetto della dignità della persona. Chi non ama rimane nella morte! Ora, l’amore vero non odia, ma ama il fratello/la sorella a prescindere da qualunque altra valutazione, etichetta, abitudine, norma. E amare non è parlare, ma essere disposti a dare, come Cristo, la vita per gli altri; essere disposti, come accade nelle mani del Presidente della celebrazione eucaristica, a farsi pane spezzato e uva spremuta per la vita di molti. Ecco perché anche noi dobbiamo imitare nell’amare Colui che ha rinunciato al potere che aveva e si è assoggettato ai ritmi della carne e della morte, come scriveva Cassiodoro: «… pur avendo il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo (Gv 10,18) – come dice lui stesso – e tuttavia, a nostra istruzione, avendo quel rispetto che è proprio del figlio diletto in cui si è compiaciuto, mostra giustamente l’onore della paternità divina. Dice, infatti, nel Vangelo: Ora, Padre, glorificami (Gv 17,5). Dalla croce grida pure: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46), per dimostrare con chiarezza l’umiltà della sua carne e confutare così le empie affermazioni dei Manichei» (Cassiodoro, Commento al Salmo 21, versione di A. Cantisani). Dobbiamo molto, per la conoscenza di Cassiodoro, al nostro Vescovo Antonio, uomo di vasta e grande cultura che abbracciava svariati ambiti: Sacra Scrittura, Teologia, Diritto, Pastorale, Letteratura. Un ambito di ricerca in cui egli ha prodotto con passione, ripeto, è quello su Cassiodoro, con i diversi volumi pubblicati sul Commento ai Salmi, che la nostra Aricidiocesi ha utilizzato per introdurre e per la imminente conclusione della causa di beatificazione e canonizzazione per culto ab immemorabili di Cassiodoro. Sei stato fedele nell’amore, Vescovo Antonio; donandoti, hai amato e fatto amare la bellezza della vita, della cultura e dell’arte. Perciò Iddio ti ha saggiato come oro nel crogiuolo e ti ha gradito come l’offerta di un olocausto. Questo è il senso di una vita che si consacra all’amore di Dio.

Conclusione. Sorelle e fratelli carissimi, il prete, il vescovo, è un uomo che punta tutto, che gioca tutto sull’immortalità, sulla vita eterna. Questa è l’eredità che ci lascia un prete che transita alla vita eterna. Il pastore dice con la sua vita, magari anche nel silenzio, la Parola di verità, il Logos, Cristo, colui che è la ragione, il senso di tutti e di tutto, lui che rende logica l’esistenza e il mondo. C’è una parola che si addice particolarmente ai ministri ordinati: «Grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti». I ministri ordinati sono stati chiamati, scelti, eletti da Dio, riconosciuti dalla Chiesa e da essa consacrati al servizio di Dio e dei fratelli e sorelle. A essi sono riservate grazia e misericordia. Grazia è il dono gratuito del mistero divino che li ha afferrati e riempiti del suo potere, per cui sono stati strumenti e segno della divina Presenza nella storia, e la misericordia è il segno della bontà di Dio che ha avuto pietà della loro umana debolezza, dell’inevitabile sproporzione fra il limite umano e la grandezza della missione ricevuta. Insieme intendiamo ringraziare il Signore per la fedeltà e generosità con cui questo servo buono ha risposto alla divina chiamata. È sempre con timore e tremore che ci dobbiamo avvicinare al mistero del prete, del vescovo e della vocazione in genere. Il prete è sempre un uomo toccato dall’amore, la sua vita è sempre in qualche modo un mistero e un miracolo. È un uomo che misteriosamente partecipa e rivive in se stesso il mistero di Cristo. Amiamo i nostri pastori, carissimi, ogni nostro pastore, perché hanno scelto di amare e quindi di dare la vita in due sensi, sia in quello di sacrificarla, donarla per amore dei fratelli come Gesù, sia nel senso di trasmetterla come padri e generatori, perché tutti possano godere della resurrezione. Dice s. Agostino: «Nessuna cosa, quale che sia … per quanto sia eccellente, non è veramente se è soggetta a mutamenti … Qualunque cosa che muta è ciò che non era: io vedo una certa qual vita in ciò che è e una certa qual morte in ciò che fu. Quando di un uomo morto si domanda: dov’è quell’uomo? Si risponde: egli fu. O verità, che sola veramente sei! […]. Esamina i cambiamenti delle cose, troverai il “fu” e il “sarà”; pensa a Dio e troverai che egli “è” e che in lui non può esservi il “fu” o il “sarà”». Pertanto, carissimi: «spieghiamo dunque le braccia verso il nostro liberatore, che essendoci stato promesso per il tratto di quattro mila anni, è finalmente venuto a patire e morire per noi sulla terra nel tempo e in tutte le circostanze che sono state predette. Ed attendendo, per la sua grazia, serena morte nella speranza d’essergli eternamente uniti, viviamo in giubilo così nel bene che gli piace impartirci, come ne’ mali, che egli ci manda per nostro bene, e che ci ha insegnato a soffrire col suo esempio» (Pascal, Pensieri, c. XVI, n. 13, edizione di Placido Maria Visaj, 1820). Fratelli e sorelle carissime, il dramma del tempo che passa, della vita che si consuma come una candela, come una clessidra, lo illumina solo colui che è entrato nel tempo ma che trascende il tempo. Preghiamo perché tutti sappiamo vivere sempre la vita come desiderio e attesa dell’Incontro e perché il venerato fratello Antonio che accompagniamo in questo momento sia non solo sazia di giorni, ma anche saziata dal la luce della risurrezione.

Amen.

+Vincenzo Bertolone
Arcivescovo Metropolita di Catznaro-Squillace

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