«Felice è l’uomo che sa rinnovarsi insieme al creato».

È forse tempo ché l’auspicio del premio Nobel Isaac Singer si avveri. Già troppe occasioni l’uomo ha sprecato per conquistare una nuova felicità. Il 26 aprile 1986, ad esempio: era l’1.23 di notte quando il quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl, nell’Ucraina sovietica, esplodeva con la potenza di quattrocento bombe atomiche. La nube tossica aleggiò su tutta Europa, lambì anche la Cina. Dei 250 milioni di curie sprigionati dalla deflagrazione, il 70% cadde sul suolo della Bielorussia: qui, lo iodio 131 danneggiò la tiroide di un terzo della popolazione e il Sud del Paese è tuttora avvelenato da cesio 137 e stronzio 90, elementi radioattivi che deteriorano cuore, sangue e ossa e impiegano secoli per estinguersi.

Dopo quella tragedia, ci si aspettava un nuovo inizio. Oggettivamente, non c’è stato. Eppure Chernobyl, e non solo per chi al prezzo della vita lo ha scritto, non è soltanto il racconto della caduta nella vertigine del Male, ma anche della resistenza riparatrice dell’uomo, capace di tessere una rete di protezione per la comunità contemporanea e futura. Un racconto capace di fare memoria e testimonianza, che può – e deve – essere utile oggi, che l’umanità intera si trova a dover far di conto con la pandemia di Covid 19.

Come allora e forse ancor più, si prospetta un futuro triste: una popolazione infelice intrappolata al chiuso per mesi, se tutto andrà bene, con i più vulnerabili verosimilmente in quarantena più a lungo degli altri, per la convivenza forzata col virus che segna anche l’economia e schiude le porte ad un periodo di lunga e grande sofferenza. Per l’Italia, in particolare, senza scelte adeguate si potrebbe assistere ad un triplice effetto: aumento del divario con gli altri Paesi europei, con ripercussioni negative in termini di competitività. Poi, crescita delle disuguaglianze tra i tanti Nord e Sud del Paese, tra le grandi aree urbane e le periferie della globalizzazione, tra i distretti industriali delle catene globali del valore e le aree depresse. Infine, divaricazione del gap digitale, con chi è più avanti destinato a correre sempre più, e chi invece è dietro sembra condannato ad arretrare ulteriormente, al punto da rischiare di rimanere fuori persino dalla didattica a distanza.

Insomma, le tessere del puzzle da comporre dopo il 3 maggio sono tante. Ma perché le ingiustizie e le differenze non siano accentuate dalla pandemia, è necessario equilibrio, o meglio, riequilibrio. La stagione che si apre dovrà perciò essere, se vuol essere tempo di rinnovamento e dunque di felicità, occasione per una rivoluzione copernicana che metta al centro l’uomo e non i soldi, i poveri e non il loro indegno sfruttamento, i popoli e non chi vuole opprimerli. «Nulla sarà come prima», è una delle frasi che risuona più spesso. Perché non resti un vuoto slogan, occorre che scienziati, politici e governanti, con il concorso della comunità si adoperino in un’unica direzione, come papa Francesco non si stanca di ripetere: «Trovare la strada giusta, sempre in favore della gente, sempre in favore dei popoli».

+ Vincenzo Bertolone

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